ABSTRACT
L’elezione di Obama è riuscita a ripristinare l’immagine internazionale degli Stati Uniti, pesantemente danneggiata da otto anni di amministrazione Bush. Gli Usa dispongono oggi di una rinnovata forza egemonica, un soft power che continua a costituire una risorsa importante nelle relazioni internazionali. A questo consenso internazionale corrisponde un consenso interno, evidenziato dal tasso di popolarità del nuovo Presidente. Questo doppio consenso, domestico e internazionale, costituisce la condizione fondamentale per la realizzazione di una politica estera efficace e interventista. Si tratta però di due consensi diversi e non complementari. Quello che l’America chiede a Obama è diverso da ciò che il mondo si aspetta dal nuovo Presidente. La capacità di leadership internazionale di Obama sarà in larga misura determinata dalla sua capacità di trovare un equilibrio tra queste due diverse richieste.
Nella lunga campagna presidenziale del 2008 le questioni di politica estera hanno occupato un ruolo meno centrale di quanto non fosse lecito attendersi. Anche su di esse, però, Obama ha costruito le proprie fortune elettorali. È stato sui temi internazionali, e sull’opposizione all’intervento in Iraq, che Obama ha definito il proprio profilo, emergendo durante le primarie come alternativa a Hillary Clinton e raccogliendo così il sostegno dei tanti elettori critici non solo verso le scelte di politica estera di Bush, ma anche nei confronti di Clinton e di altri leader democratici, accusati di non essersi opposti e di avere anzi accettato e legittimato. Conquistata la nomination, Obama è riuscito ad evitare che la politica estera e di sicurezza, tradizionale cavallo di battaglia dei repubblicani, esercitasse un peso rilevante sulle scelte degli elettori. Lo ha aiutato il pieno esplodere della crisi economica, che nelle ultime settimane di campagna elettorale ha dirottato le attenzioni degli americani verso altre issues e priorità (in un sondaggio svolto pochi giorni prima del voto più del 60% degli intervistati aveva definito l’economia come la propria preoccupazione principale; meno del 20% aveva invece indicato Iraq e terrorismo [Pew Research Center]). Nella fase finale della campagna elettorale Obama si è rivelato assai abile nell’offrire agli elettori un discorso di politica estera che, per quanto vago e generico, era maggiormente in sintonia con l’umore del paese. Laddove McCain ha costantemente (e coerentemente) riproposto categorie e, anche, rigidità dell’interventismo neoconservatore, Obama ha fatto proprio un approccio non solo cauto e moderato, ma anche pragmatico e realista. Un realismo, quello reale o presunto di Obama, che molti commentatori hanno finito per celebrare come il miglior antidoto possibile alla deriva ideologica della politica estera statunitense degli ultimi otto anni e al dogmatismo che si asseriva contraddistinguere molte delle posizioni di McCain, dalla sua ostilità verso i negoziati multilaterali sul nucleare nordcoreano (nei quali Bush si è vieppiù impegnato durante il suo secondo mandato) alla sua richiesta di accelerare il processo d’inclusione di Georgia e Ucraina nell’Alleanza Atlantica. In tempi di crisi e di conseguente scetticismo verso politiche estere costose e interventiste, l’adozione di parole d’ordine caute e realiste tende ad essere particolarmente apprezzata dall’opinione pubblica statunitense. Obama è riuscito a fare leva su ciò, colmando almeno in parte il gap di credibilità e competenza sui temi della sicurezza nazionale che, nelle percezioni di una larga maggioranza degli americani, ancora separa democratici e repubblicani.
L’articolazione in due fasi della campagna elettorale – per la nomination e per la presidenza - si è riflessa non solo sul discorso di politica estera di Obama, ma anche sui contenuti della sua proposta. Durante le primarie, Obama si è connotato come un candidato quasi pacifista. L’unico tra i contendenti democratici, a parte il congressman radicale dell’Ohio Dennis Kucinich, a poter dire di avere criticato da subito l’intervento in Iraq e le premesse strategiche che vi sottostavano, Obama ha capitalizzato come meglio non poteva questo elemento. Nel farlo Obama ha radicalizzato inizialmente il proprio messaggio politico, combinando il pacifismo e l’anti-interventismo con frequenti critiche alla filosofia liberista che avrebbe ispirato l’azione internazionale degli Usa nel dopo guerra fredda. Sotto accusa è finito in particolare il Nafta, l’area di libro scambio del Nord America, il cui trattato istitutivo continua a rappresentare uno degli emblemi della nuova politica clintoniana degli anni Novanta. Dettata da ovvie considerazioni elettorali, ma anche dal diverso clima politico e culturale di fine 2007/inizio 2008, questa sterzata radicale di Obama strideva sia con la biografia politica, moderata e finanche centrista, del Senatore dell’Illinois sia con il messaggio che egli aveva cercato inizialmente di proiettare. Nel suo manifesto elettorale di politica estera, pubblicato nell’estate del 2007 dalla rivista “Foreign Affairs”, Obama aveva sì criticato l’azione militare statunitense in Iraq, ma lo aveva fatto nel contesto di una riproposizione, invero piuttosto convenzionale, delle logiche e delle categorie di un internazionalismo liberal che ricordava da vicino quello di Bill Clinton, nel quale si riaffermava il legame inestricabile tra la tutela della sicurezza statunitense, l’estensione della democrazia e la liberalizzazione degli scambi [Obama, 2007].
Protezionismo e anti-interventismo sono stati però messi da parte una volta terminate le primarie. Di commercio internazionale, e ancor più di Nafta e accordi bilaterali, si è parlato molto poco, salvo i consueti, vaghi cenni nei programmi dei due candidati alla necessità di promuovere una ulteriore liberalizzazione degli scambi, integrati, nel caso di Obama, dalla sottolineatura della necessità che ciò avvenga solo laddove siano rispettati precisi standard ambientali e lavorativi nei paesi partner degli Stati Uniti.
L’Iraq è a sua volta uscito dal dibattito elettorale. La stabilizzazione, effettiva o presunta, prodotta dalla nuova strategia del generale Petraeus, la rilevante diminuzione del numero di vittime statunitensi e la certezza di un prossimo ritiro delle truppe americane, di cui andavano definiti solo tempi e forme, hanno tolto l’Iraq dai riflettori. Le posizioni sia di McCain sia di Obama sono risultate superate dai tempi. Entrambi i candidati hanno continuato a ribadire la loro linea – rilancio dell’intervento per McCain, rapido ritiro nel caso di Obama – in una discussione che appariva però ormai scollegata dalla situazione venutasi a determinare sul campo, e che suscitava sempre meno interesse tra gli elettori.
Da giugno a novembre Obama è così tornato a fare propri codici, analisi e prescrizioni di un approccio liberal alle grandi questioni internazionali, centrato sulla necessità di rafforzare l'impegno internazionalista degli Usa, sull'affermazione del primato del diritto internazionale e sulla sottolineatura dell'importanza di ri-legittimare le grandi organizzazioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite. Obama ha compensato la sua posizione sull’Iraq con l'enfasi posta sulla necessità di rilanciare l’intervento in Afghanistan: il fronte primario della campagna contro il terrorismo, per Obama e i suoi consiglieri, che richiederebbe un maggior impegno da parte sia degli Stati Uniti sia dei loro alleati. Ha bilanciato le sue critiche alla crescita eccessiva delle spese militari con la sollecitazione ad aumentare il numero di uomini in armi, promettendo di arruolare quasi 100mila soldati in più, tra truppe di terra e marines. Ha criticato severamente l’unilateralismo di Bush e Cheney e invocato un rinnovato impegno degli Usa alla collaborazione multilaterale, imposto dalla rete sempre più fitta d’interdipendenze globali, ma anche funzionale alla tutela degli interessi degli Stati Uniti e congruente con i loro valori e ideali. Ha, infine, riproposto una lettura marcatamente liberal ed economicistica delle cause del radicalismo politico, e di quello islamico in particolare, presentate come il portato di arretratezza e sottosviluppo più che di assenza di libertà politiche e civili, come invece sostenuto in molte analisi dell'amministrazione Bush, a partire dalla famosa Dottrina di Sicurezza Nazionale del settembre 2002. Nel farlo è riuscito a sottrarsi al dilemma etico posto da un rigetto tout court dell’interventismo umanitario post-guerra fredda che una precisa svolta realista avrebbe al contrario imposto. Il tutto è avvenuto entro un discorso che, sulle specifiche questioni internazionali e sui tanti teatri di crisi che inevitabilmente coinvolgono gli Stati Uniti, è rimasto estremamente vago e nebuloso, fatta eccezione per alcune proposte in materia di politiche ambientali ed energetiche – su tutte quella di coinvolgere nuovamente gli Stati Uniti nella convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici e di investire con forza in fonti energetiche rinnovabili - che lasciano presagire una marcata discontinuità con gli anni di Bush.
Vi sono almeno tre spiegazioni della vaghezza delle proposte di Obama in materia di politica estera e di sicurezza. La prima è rappresentata ovviamente dalla convenienza elettorale. A un’opinione pubblica disillusa da otto anni di Bush, e indisposta a sostenere i costi di una politica estera interventista, era meglio offrire un messaggio ambiguo, assai lontano dalle certezze del programma di McCain. La seconda è l’intrattabilità di molti dei problemi con i quali gli Stati Uniti, e chi li guida, devono confrontarsi. La terza è Obama medesimo. L’Obama radicale e, in parte, populista delle primarie era un’Obama assai lontano dall’algido e cauto senatore che molti avevano conosciuto prima del 2007 e che è ritornato una volta conquistata la candidatura. Durante tutta la campagna elettorale post-primarie, Obama ha cercato di proiettare un’aura di moderazione, cautela, pragmatismo e, in ultimo, “presidenzialità”. Vi è riuscito con successo anche rispetto alla politica estera, come si è visto in occasione del viaggio di luglio in Medio Oriente e in Europa, culminato nel bagno di folla di Berlino. Ed è stato aiutato dal contrasto particolarmente stridente tra il ticket Obama-Biden e quello McCain-Palin. Come nelle primarie Obama era riuscito a incarnare il cambiamento, così da giugno è riuscito a intercettare quella richiesta di ordine e moderazione, soprattutto in politica estera, che proveniva da una parte rilevante dell’elettorato. Per quanto paradossale, le convergenti istanze di cambiamento e ordine riflettevano entrambe la sollecitazione a dare un netto segnale di rottura con le scelte di Bush e con il radicalismo che le aveva ispirate.
La figura di Obama e lo stesso processo elettorale hanno avuto un impatto straordinario fuori dagli Stati Uniti. La vitalità dimostrata dalla democrazia statunitense, la prima, storica elezione di un presidente afro-americano, il coinvolgimento e la partecipazione globale generate dalle elezioni hanno concorso a ripristinare un’immagine, quella degli Stati Uniti, che solo fino a poco tempo fa appariva irrimediabilmente danneggiata. La lunga competizione elettorale ha concorso a mostrare una volta di più la forza egemonica del modello statunitense: la tenuta di un mito – quella dell’America delle mille opportunità, sempre capace di rinascere e risollevarsi – di cui con troppa fretta si era decretato il tramonto. La candidatura di Obama, la mobilitazione elettorale e, infine, l’elezione alla presidenza del senatore dell’Illinois dotano la nuova amministrazione di un soft power - di una forza attrattiva e di una capacità di esercitare un'influenza politica e culturale - la cui rilevanza non può essere sottostimata. I sondaggi compiuti a ridosso del voto sono emblematici. In quasi tutti i paesi del mondo (con la significativa eccezione della Georgia) una maggioranza schiacciante degli intervistati ha dichiarato di preferire Obama a McCain, con percentuali ovviamente bulgare in Africa, ma con maggioranze larghissime anche in Europa, in America Latina e in Giappone. Obama appare pertanto a molti come il presidente di un’America tornata a farsi punto di riferimento e modello per una parte rilevante del resto del mondo [Gallup/Foreign Policy].
Conquistata la presidenza, Obama sembra oggi disporre di quel doppio consenso, interno e internazionale, necessario a un presidente per promuovere una politica estera ambiziosa e, laddove necessario, interventista. Gli indici di popolarità del neo-Presidente all’interno degli Stati Uniti sono cresciuti di molto con la sua elezione e raggiungono livelli altissimi. Con l’eccezione di una parte della sinistra più radicale, le scelte fatte finora da Obama sono state valutate molto positivamente. Questo è valso anche per la squadra di politica estera e di sicurezza costruita da Obama, nella quale vi sono esponenti apprezzati della passata amministrazione, come il segretario della Difesa Robert Gates, democratici moderati, come il nuovo segretario di Stato Hillary Clinton, e liberal interventisti legati a Obama, su tutti la nuova ambasciatrice alle Nazioni Unite, Susan Rice. Non sarà facile preservare l’armonia tra figure politicamente forti e il passato, anche quello più recente, è ricco di esempi di amministrazioni ben presto lacerate da conflitti interni e incapaci di esprimere una linea unitaria di politica estera. Per il momento, però, le scelte di Obama hanno contribuito a rafforzarlo politicamente.
Il consenso alimenta però anche forti aspettative, fuori e dentro gli Stati Uniti. Ed è qui che per Obama si aprono una serie di dilemmi e di problemi. Il doppio consenso di cui Obama gode è stato infatti facilitato proprio dalle ambiguità, dalla vaghezza e, in ultimo, dai silenzi del programma di politica estera del candidato Obama e delle modalità attraverso cui questo programma è stato presentato agli americani e al mondo.
Sul piano interno, Obama ha assecondato quella sollecitazione a ridurre l’impegno e l’esposizione globali degli Stati Uniti. Non si tratta ovviamente d’isolazionismo, come ha frettolosamente affermato qualche commentatore. Nella rete d’interdipendenze odierne l'isolamento non è un'opzione per la principale, ed unica, potenza globale. Quello che oggi una percentuale maggioritaria degli americani chiede è però di abbandonare le radicali declinazioni neconservatrici dell’internazionalismo statunitense, riducendo i costi e gli oneri della leadership mondiale degli Usa. Questo non si applica all’Afghanistan, dove la maggioranza dell’opinione pubblica condivide la convinzione di Obama che sia necessario un maggiore impegno statunitense. L’Afghanistan continua però a essere letto come un problema anche interno degli Stati Uniti: come la prima e decisiva linea del fronte della lotta al terrorismo. Diversa è la situazione rispetto ad altri temi, che qualificheranno o meno in senso multilaterale, cooperativo e internazionalista la politica estera dell’amministrazione Obama. Nel suo programma elettorale e in molti interventi pubblici, Obama ha enfatizzato l’obbligo per gli Stati Uniti non solo di collaborare all’interno delle grandi organizzazioni internazionali, Nazioni Unite su tutte, ma anche di appoggiare le riforme necessarie per adattare tali organizzazioni al mutato scenario internazionale. È però difficile immaginare un forte sostegno interno a questa posizione; non a caso, Obama e Biden hanno temperato il loro internazionalismo multilateralista con frequenti sottolineature della possibilità che gli Usa agiscano da soli se chiamati a farlo. Ed è indicativo come proposte che in Europa sono osservate con perplessità e malcelata sufficienza, come quella di creare una “Lega delle democrazie” della quale non farebbero ovviamente parte Cina e Russia, che integri, e se necessario surroghi, l’Onu siano invece prese sul serio e dibattute negli Usa, anche in circoli e think tanks vicine al neo-Presidente. In una situazione di crisi e difficoltà come quella attuale appare inoltre assai inverosimile che il Congresso e gli elettori sostengano una politica di aiuti e di sostegno allo sviluppo quale quella preconizzata nel programma di Obama. È anzi probabile che ad antiche tensioni se ne aggiungano di nuove, in particolare nei negoziati per la liberalizzazione e la regolamentazione multilaterale degli scambi. Obama ha messo da parte molte delle parole d’ordine protezionistiche delle primarie, ma per scelta e necessità non può non appoggiare forme di sostegno pubblico ad alcuni grandi settori industriali in crisi, aprendo un processo destinato a rendere ancora più arduo il dialogo all’interno del Wto, sia con l’Europa sia con le economie emergenti. Infine, la convinzione che l’intervento in Iraq sia stato un grave errore rende paradossalmente più difficile un rinnovato impegno degli Stati Uniti nel teatro mediorientale, laddove qualsiasi soluzione passa giocoforza attraverso la disponibilità della nuova amministrazione a impegnarsi per far ripartire il processo di pace israelo-palestinese.
Quel che gli americani chiedono a Obama di non fare (o di fare con molta cautela) è però ciò che gran parte del mondo invece si attende dalla nuova amministrazione. Fuori dagli Stati Uniti l’oggetto del dibattere non è l’opportunità o meno di un maggior intervento statunitense nelle grandi crisi internazionali, ma le modalità di tale intervento, la cooperazione con altri soggetti nella sua promozione e la definizione degli obiettivi al cui servizio esso deve essere posto. Agli Usa si chiede di abbandonare l’ostentato unilateralismo del primo Bush, che si è peraltro molto affievolito nel secondo mandato. E si chiede esplicitamente un maggior coinvolgimento nelle organizzazioni internazionali e nei negoziati multilaterali, nella convinzione che solo un maggior attivismo statunitense possa sbloccare una serie d’impasse (Doha round e riforma delle Nazioni Unite su tutte) che hanno concorso a congelare il processo di disciplinamento e gestione consensuale della globalizzazione, rendendo più difficile la collaborazione tra i principali soggetti del sistema internazionale. A questo si aggiunge l'auspicio che gli Stati Uniti diano un contributo maggiore a iniziative multilaterali di sostegno allo sviluppo e lotta alla povertà. Per ovvie ragioni, le speranze suscitate in molti paesi africani dall’elezione di Obama sono altissime, e sono state alimentate dall’impegno del nuovo presidente ad adottare una serie di misure – dalla cancellazione del debito dei paesi più poveri al raddoppiamento della cifra destinata agli aiuti per i paesi più poveri – i cui beneficiari principali dovrebbero essere proprio gli stati africani. Infine, si dà per scontato che Obama rimuova da subito alcuni dei simboli più tangibili e, agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, odiosi della campagna globale contro il terrorismo promossa dall’amministrazione Bush, a cominciare dal carcere di Guantanamo.
Obama soddisferà alcune di queste speranze. Lo farà però solo in parte, e sarà attento a trarre il massimo profitto possibile da gesti ad alto contenuto simbolico ma basso impatto politico interno. La campagna contro il terrorismo, ad esempio, cambierà alcuni dei suoi tratti e certo sarà presentata in forme diverse all’opinione pubblica mondiale. Permarranno però alcuni elementi della legislazione d’emergenza post-11 settembre. Guantanamo sarà chiusa, ma si creerà molto probabilmente un sistema di corti speciali per processare molti dei detenuti accusati di terrorismo. Una simile scelta sarà giustificata in nome di ragioni legali e investigative. Peseranno tuttavia su di essa considerazioni di ordine politico, visto che una parte rilevante dell’opinione pubblica statunitense non condivide lo sdegno internazionale nei confronti di Guantanamo e lo considera anzi lo strumento attraverso cui Bush ha ottenuto uno dei pochi successi nella lotta al terrorismo. Un recente sondaggio ci offre un dato particolarmente rilevante e, per noi europei, sorprendente: a fronte di un 27% di statunitensi favorevole alla chiusura di Guantanamo, rimane un 44% di contrari e un 29% di indecisi [Quinnipiac, 2008].
Una certa disillusione in Europa sarà quindi inevitabile. È assai probabile che Obama, “l'americano più popolare in Europa dai tempi di Elvis” secondo la giornalista Anne Applebaum, riesca inizialmente a limitare le ricadute politiche di tale disillusione. A dispetto delle tensioni degli ultimi anni, e della diffusione di speculari pregiudizi anti-americani e anti-europei in ampi strati delle opinioni pubbliche europea e statunitense, i fattori che legano e accomunano Europa e Stati Uniti rimangono molto forti. L'Europa è il partner naturale dell'amministrazione Obama nella promozione di un'agenda internazionalista liberale che su alcuni temi – ambiente in particolare – sembra già far intravedere una nuova convergenza transatlantica. Per peso politico e diplomatico, capacità militari e livello di cooperazione e integrazione, i paesi europei rimangono inoltre gli interlocutori privilegiati di Washington e gli unici alleati con i quali siano possibili forme di azione congiunta quale quella promossa in Afghanistan.
Vari fattori, strutturali e contingenti, potrebbero però alimentare nuove difficoltà nelle relazioni euro-americane. Relazioni, queste, fortemente asimmetriche e sbilanciate, in termini d'interessi e di percezioni reciproche. Per quel che rappresenta e per quello che è, per il suo mercato e la sua forza militare, per il suo hard power e il suo soft power, l'America continua infatti a essere molto più importante per l'Europa di quanto l'Europa non lo sia per l'America.
Parlare di Europa al singolare è inoltre un ovvio artifizio che proprio i rapporti con gli Stati Uniti, e gli effetti non di rado laceranti che essi hanno sull'unità europea, aiutano a disvelare. Una parte d'Europa - la “vecchia Europa” nella sprezzante definizione datane dal primo segretario della Difesa di Bush, Donald Rumsfeld – guarda con favore alla probabile decisione di Obama di porre in stand-by sia l'ulteriore processo di ampliamento dell'Alleanza Atlantica sia il dispiegamento di un limitato sistema anti-missilistico in Polonia e nella Repubblica Ceca. Decisioni, queste, che contribuirebbero a un miglioramento dei rapporti con la stessa Russia, ma che finirebbero per alimentare il risentimento di alcuni degli stati europei che maggiormente hanno sostenuto gli Usa negli ultimi anni.
Infine, permangono ambiti e problemi sui quali la differenza di vedute tra Europa e Stati Uniti rischia addirittura d’aumentare in conseguenza dell'elezione di Obama. Il nuovo presidente ha già fatto chiaro che chiederà ai partner europei un maggior impegno militare in Afghanistan e un contributo diplomatico più forte nei negoziati sul nucleare iraniano. Se la dichiarata disponibilità di Obama a riaprire un serio dialogo con l'Iran potrebbe facilitare una comune posizione atlantica, l'Afghanistan sembra invece aprire seri problemi nei rapporti tra Usa ed Europa. Perché da parte europea si crede che la strategia adottata in Afghanistan vada rivista; perché qualsiasi governo europeo deve fare i conti con l'impopolarità di un aumento dell'impegno militare in Afghanistan; perché negli Usa vi è forte la convinzione che il contributo operativo europeo nella campagna contro i talebani sia insufficiente e che l'Europa si sia col tempo sottratta alla proprie responsabilità e sia venuta meno ai propri impegni. Sullo sfondo, agiscono alcune grandi questioni – l'utilizzo della forza militare per promuovere processi di democratizzazione e nation building e la definizione delle responsabilità dei problemi mediorientali – rispetto alle quali la diversità di vedute (e, anche, di pregiudizi) tra Europa e Stati Uniti continua a essere marcata e molto profonda.
Il gap tra aspettative e possibilità è quindi particolarmente forte. Perché le aspettative generate dall’elezione di Obama sono altissime, dentro e fuori gli Stati Uniti. Perché si tratta di aspettative diverse e non facilmente conciliabili. Perché l’attuale quadro internazionale e le difficoltà economiche che gli Usa devono fronteggiare limitano le possibilità d’azione degli Stati Uniti sulla scena internazionale.
Obama e i suoi consiglieri ne sono ovviamente consapevoli. Dopo il 4 novembre hanno più volte cercato di attenuare queste aspettative, coscienti però che sono proprio esse a nutrire quel soft power - quella rinnovata capacità egemonica - di cui l’America oggi dispone. La sottolineatura forte delle tante interdipendenze che legano i diversi soggetti del sistema internazionale, limitandone la sovranità, e della necessità conseguente di agire secondo canali consensuali e multilaterali sembra anzi esprimere la consapevolezza che proprio questi canali costituiscono lo strumento storico attraverso cui gli Stati Uniti hanno tutelato i propri interessi, perseguito i propri obiettivi e, in ultimo, consolidato la propria leadership. Oggi, il tornare a farlo è una necessità ancor prima che una scelta. Ma appare anche l’unica opzione possibile, per preservare un’influenza globale che – qualsiasi parametro si voglia utilizzare per misurarla – si è grandemente ridotta nell’ultimo decennio.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Barack Obama, Renewing American Leadership, “Foreign Affairs”, July/August 2007 (http://www.foreignaffairs.org/20070701faessay86401/barack-obama/renewing-american-leadership.html?mode=print)
Gallup/Foreign Policy, If the World Could Vote (http://www.foreignpolicy.com/gallup/).
Pew Research Center, Inside Obama’s Sweeping Victory, 5 November 2008 (http://pewresearch.org/pubs/1023/exit-poll-analysis-2008).
Quinnipiac University National Poll, Voters Say 'Yes We Can' With High Hopes For Obama, 12 November 2008 (http://www.quinnipiac.edu/x1284.xml?What=Guantanamo&strArea=;&strTime=3&ReleaseID=1228#Question015)